sabato 19 novembre 2011

Di paperi, storie e altre faccende


D: Eccoci qui, immerso nella folla di Lucca insieme a Makkox, uno dei pezzi grossi del fumetto italiano, sulla cresta dell’onda già da un po’.
R: Addirittura.

D: Sì, è una di quelle frasi fatte che però...
R: No no, invece mi piace, in fondo io abito la rete e in effetti onda, riferito al web, è il termine giusto, perché è un movimento volatile. L’onda dura un attimo, quindi vivere sulla cresta dell’onda è come un monito.

D: Dura un attimo come molte delle cose che passano sul web.
R: Sì, il fatto è che il web si propone come memoria del tutto ma proprio perché gigantesco, la memoria del tutto perde valore. Ancora oggi quello che resta veramente è sulla carta mentre sul web… voglio dire, certa roba mia di tre anni fa per me è come se fosse distante trent’anni.

D: Eppure il tuo linguaggio è molto legato alla struttura del web – penso alle tue celebri vignette verticali, ad esempio.
R: Sì, quella è stata l’unica intuizione, se così possiamo chiamarla, di tutta la mia vita. Io sono sempre stato affascinato dal web. Sono sempre stato un frequentatore, però non avevo mai pubblicato niente, mi interessavo di programmazione. Ad un certo punto ho pensato che se volevo fare qualcosa sul web doveva essere qualcosa che fosse talmente adatto a quel mezzo da non poter essere riportato su carta, qualcosa dal quale non si potesse più tornare indietro senza perdersi. Così ho approfittato della cosa più naturale, e cioè lo scroll, che rappresenta il novanta per cento dei movimenti che l’utente fa quando naviga. Ecco, questa è una trovata di cui sono contento.

D: A questo punto non posso che chiederti “perché il fumetto?” Cosa ti piace del fumetto? In una delle tue strisce fai dire al tuo alter-ego che vuoi “far cantare il bianco della carta”. È questo uno dei motivi principali per cui sei diventato fumettista? E poi, come si fa a far cantare il bianco della carta su internet?
R: Allora, partiamo dalla prima, come sono diventato fumettista? Guarda, è una cosa che ti diranno tutti, e cioè che ci nasci così, nel senso che io ho sempre disegnato, ma anche scritto ed entrambe le cose mi hanno sempre dato soddisfazione. Quando avevo qualcosa da dire io me lo scrivevo, come in un diario, ma corredavo il tutto con disegni, disegni parlati e poi… ho continuato così, a coltivarmi così, senza riferirmi troppo ai fumetti, che infatti non conosco. Ho coltivato un mio modo di esprimermi. Io voglio che il disegno faccia parte della calligrafia. Quando scrivo non è che prima faccio una brutta copia a matita e poi ripasso ogni tratto, per far uscire tutte le “t” della stessa altezza. Cerco, perché è una ricerca, come fanno tutti i grandi maestri, di trasformare il disegno in calligrafia, con tutte le sue storture, gli errori e via dicendo. Alla fine diventa davvero tuo. Poi, ovviamente, bisogna contare su una base di disegno fortissima, sulla quale io posso confidare abbastanza perché mi ci sono rotto il culo davvero di brutto, fin da ragazzino.

D: Ma infatti tu non sei diventato famoso subito ma hai fatto, parole tue, tanto lavoro da insetto.
R: Sì, sì. Bisogna fare come le cicale, che stanno vent’anni sottoterra e poi ne campano uno fuori. Bisogna interiorizzare tanto della propria espressività, del proprio disegno, anzi, del proprio segno e poi quel disegno si fa struttura e tutto diventa più “facile”. Questa, però, è la mia esperienza, non è detto che sia uguale per tutti, anzi. Certo mi sarebbe piaciuto uscire prima, non a quarant’anni, ma non ho trovato interlocutori.

D: Il mio professore di storia dell’arte soleva ripetere che “l’artista matura in tarda età”, quindi, siccome la tua età non è tarda, direi che sei ancora in tempo. Detto questo, tu ti senti maturo?
R: Guarda, la definizione esatta non è maturo; mi sento abbastanza padrone del mezzo. Poi, maturità… no, non mi sento ancora pienamente maturo come artista.

D: Meno male, nel senso che puoi ancora migliorare.
R: Sento margini di miglioramento nelle cose che posso narrare, c’è ancora molto da dire.

D: E a proposito di narrazione, c’è un’altra cosa che vorrei chiederti: tu sei apprezzato per la tua satira, ma anche per le tue storie più introspettive, cosa che non si può dire di tanti autori. Cosa c’è, dunque, che unisce queste tuoi due approcci? Cos’è che la gente apprezza di Makkox?
R: Io penso sia il fatto che faccio satira in maniera un po’ diversa, nel senso che non riesco a fare la vignetta con la battuta secca; la mia satira è sempre molto dialogata e diventa quindi narrativa, c’è un lasso di tempo che passa, ci sono cose che succedono. Non è la fotografia del momento, è più una scena quella che io racchiudo in una vignetta, con i dialoghi a costituire l’elemento forte del mio raccontare. Penso, quindi, che il trait d’union sia lì.

D: Sempre restando in tema, tu una volta hai detto che la tua è una satira fatta di avanzi da cucina, perché, per caratterizzare i personaggi che tiri in ballo, i vari Berlusconi, Tremonti e via dicendo, tu, non conoscendoli, prendi ispirazione da persone che te li ricordano. Il personaggio di don Mimì (protagonista delle storie pubblicate sul Canemucco e opzionato per un progetto cinematografico dal titolo I pescecani, N. d. A.), nasce alla stessa maniera?
R: Assolutamente sì. Fa parte della mia esperienza di lavoro in una terra abbastanza borderline, con situazioni particolari. Chiamarla malavita organizzata non rende bene l’idea perché è una sorta di malavita storica, radicata, etnica. Io ho lavorato in una cava vicino a Casal di  Principe, e lì ho conosciuto tutta una tipologia di persone, anche oneste, che però hanno fatto proprio quel modo di interagire fra di loro, per emulazione.

D: Ma tu, tramite il personaggio di don Mimì, volevi dire qualcosa o volevi semplicemente raccontare quella storia?
R: Allora, come spesso accade la spiegazione è molto più banale di quanto si pensi. Io non ho messaggi da lanciare, tutto nasce dalla mia passione per le serie. Penso che un italiano come me, nato e cresciuto in provincia, una buona serie la possa scrivere traendo spunto dal materiale che trova intorno a sé. Io non potrei fare accadere qualcosa in luoghi che non ho mai visitato.

D: Diversi scrittori infatti dicono che si debba scrivere solo di ciò che si conosce.
R: Vero. C’è anche da dire che io amo Salgari, che non è mai stato nei posti che ha descritto; io però non sono capace di fare altrettanto. Siccome la mia tensione è sempre alla narrativa alta, volevo che la mia narrazione fosse sempre pregna di vero. La mia, però, non è una storia di denuncia, ho anche ripulito un po’ il tutto, come fanno ne I Soprano’s, come fa Scorsese. Quelle sono storie di malavita… stilizzata, che riesce anche a essere divertente. Mi interessa una narrazione che vada al di sopra delle banalizzazioni in bianco e nero.

D: Domanda annosa: letteratura impegnata o popolare? Prima il messaggio o prima la storia?
R: Guarda, ‘sta cosa che ci debba sempre essere la morale di fondo a me risulta secondaria, come se fosse un effetto collaterale. Se è alla radice del tuo scrivere la motivazione dev’essere davvero forte, devastante. Pensa a certi scrittori che vengono da situazioni drammatiche, di conflitto, come in Medio Oriente, ad esempio. In loro il desiderio di denuncia è intimo, radicato. La storia però non è mai pretestuosa, c’è molto di autobiografico, i personaggi non sono figurine funzionali a denunciare qualcosa. Per me la narrativa alta è quella dove i personaggi sono tutto. Nessuno si ricorda la storia completa di Amleto, ma tutti sanno chi è. Stessa cosa per Il mercante di Venezia, o per Romeo e Giulietta, voglio dire, non è che Romeo e Giulietta inizia che si piacciono e alla fine crepano entrambi, in mezzo c’è tantissimo. Pochi conoscono la storia ma tutti conoscono Romeo e Giulietta.

D: Non è una questione di temi, insomma.
R: No no, non è una questione di temi, non è che la letteratura alta è quella che tratta della vita mentre la bassa è, che so, la fantascienza. Per me uno dei più grandi scrittori, che avrebbe meritato il Nobel e che so essere stato in lizza, è Stanislaw Lem, l’autore di Solaris, per intenderci. Non è solo un autore di fantascienza, è uno scrittore che sa trattare la materia umana come pochi. Il genere non fa la differenza. Un altro esempio è George Simenon, altro più volte candidato al Nobel.

D: Torniamo ai tuoi personaggi e a quello che peschi dalla realtà per caratterizzarli. Cosa metti di te? Quanto Marco c’è dietro il papero?
R: Tantissimo. Sai quale dovrebbe essere la domanda giusta? Dietro Paperino – perché il mio papero viene proprio da lì – quanto di me ho ritrovato? Io mi sono affezionato tantissimo a questo personaggio fin da piccolo, perché è irascibile come me, Paperino è incazzosissimo, mi ci sono riconosciuto.

D: Insomma, non sei un perfettino noioso come Topolino?
R: No, no, assolutamente. È la persona che Paperino credo dovrebbe detestare di più, tutto così, che non sbaglia mai.

D: Mi hai citato Lem, Simenon, Paperino, quindi, le tue fonti di ispirazione come…
R: Oh, allora, a questa ti devo rispondere bene. La mia fonte di ispirazione non è mai la scrittura degli altri. Quello è il nutrimento che viene macerato ed entra in me, è ciò di cui mi approprio. Quando trovi una soluzione espressiva efficace, la rubi e la fai tua, anche inconsciamente. Non è questione di copiare. L’ispirazione, però, viene sempre e solo dalla realtà. Chiaro che se leggo un buon noir viene voglia anche a me di scrivere un noir, però alla mia maniera.

D: È come un filtro di cui tu ti appropri per raccontare quello che vuoi tu.
R: Esatto. Io poi sono molto legato al noir, ce l’ho nell’anima. Penso che il noir sia una sorta di stilizzazione popolare della tragedia e io adoro la formula della tragedia: i personaggi sono complessi, l’umorismo è fortissimo e i finali non sono mai risolutori, netti.

D: È il richiamo realistico che ti piace. Non ti interessa scrivere la storiella edificante.
R: Assolutamente no.

D: Ti consideri ottimista?
R: Assolutamente sì. Se c’è una cosa in cui credo è quella cosa, quella scintilla ancora non ben spiegata che ci porta ad andare contro all’entropia, alla distruzione e a costruire.

D: Un po’ come il miracolo termodinamico del Dr. Manhattan?
R: Ma lo sai che ogni volta mi parlano del Dr. Manhattan e io non so chi cazzo sia? Cioè, lo so, ma non l’ho mai letto. Va be’, comunque, io sono amaro e sarcastico e tutto quello che vuoi, ma non cinico perché il cinico è senza speranza. Nelle cose che scrivo c’è sempre almeno un briciolo di positività, non so se chiamarlo vero e proprio ottimismo.

D: Cosa che si capisce anche dalla galleria di personaggi che popolano le tue vignette satiriche; per quanto siano discutibili e, alcuni, terribili, non sono mai dei mostri. È come se nel tuo sguardo ci fosse anche una sfumatura di simpatia.
R: Io sono convinto che chiunque sia dotato di parola, di parola articolata, di espressione, non può essere del tutto una merda. Le persone cattive sono quelle che non riescono a proferire verbo, sono quelli che strangolano le ragazzine. Io questa gente non la descrivo mai, gente come i Brusca, che vanno in galera per aver fatto delle cose animalesche. Se tu li senti parlare hanno un vocabolario di sei parole e non è che nella testa abbiano qualcosa di più. A me questi fanno veramente terrore. Berlusconi, Ghedini, tutti questi che disegno, non riesco a pensare che siano incarnazioni del male. Oddio, probabilmente me la racconto così per non avere più paura di quella che ho già. Io vivo molto rinchiuso, la realtà la filtro col computer perché la folla mi spaventa.

D: E il web non ti spaventa?
R: No. La possibilità di subire attacchi sul web, di essere sputtanato, la violazione della privacy e quant’altro, io la combatto con un’estrema trasparenza. A parte i comportamenti criminali, tipo quelli che ti fottono la carta di credito – m’è successo – io penso che gli antigeni ci siano nel sistema stesso. Sai cos’è? Una cosa che fa tanta paura del web sono le falsità che possono girare sul tuo conto; ecco, io questo non lo temo, perché penso che la propria storia parli per sé. Essere serenamente trasparenti aiuta a contrastare puttanate e maldicenze.

D: Cosa non da tutti, essere trasparente sul web. È troppo facile non esserlo.
R: Secondo me in futuro dovremo abituarci a convivere con un’immagine di noi stessi che non sia diversa da quella che viviamo fra le nostre quattro mura. Se Marrazzo avesse dichiarato fin dall’inizio i suoi gusti sessuali, sarebbe stato inattaccabile e non è detto che non sarebbe stato eletto. Prendi Vendola: se si fosse nascosto e fosse poi stato scoperto, si sarebbe esposto a degli attacchi devastanti. Invece lui è uscito allo scoperto subito, dimostrando che con la trasparenza si vince.

D: Anche in un paese come il nostro, noto per il contrasto fra vizi privati e le pubbliche virtù?
R: Sì. Un esempio è anche Berlusconi: lui è stato sgamato, però non ha mai negato e alla fine ha detto “ma che cazzo, lo fate pure voi, io sono fatto così”. Poi per carità, si aprono tutt’una serie di discorsi sui comportamenti che ti espongono a ricatti, sul fatto di essere una figura istituzionale, eccetera. Però la mossa in sé, di ammettere invece di arroccarsi in difesa, è stata molto intelligente. Se sei trasparente, sei inattaccabile. Penso sia una scelta obbligata per il futuro perché ormai, come te movi stai pittato. Se sei trasparente, la gente è più disposta a perdonarti quando fai la cazzata mentre la menzogna non paga. Quando tradisci non è solo il tradimento in sé a fare male, ma il fatto di aver mentito per tutto quel tempo, di aver fatto sentire un’altra persona una povera stronza.

D: Senti, un’ultima domanda, generica, e vediamo se anche qui sei ottimista: il fumetto in Italia. Come la vedi?
R: Mah, guarda, avessi la minima idea di come sta messo… Sicuramente ne vedo pochissimo in edicola e non ne vedo di buona qualità sul web, e questo mi spiace molto, perché è un errore gravissimo.

D: Forse perché il web in Italia non è ancora energico come in altri paesi?
R: Io ci vedo anche un altro freno, e cioè il fatto di mettere la propria roba gratis su internet. Ma che cazzo de gratis, non si capisce che così ci si può costruire una propria autorevolezza e che un domani quello diverrà moneta? Avere un tuo pubblico ti permette anche di riconoscerti. Tu attraverso la tua audience capisci chi sei. Io, ad esempio, pensavo di scrivere per un’elitè colta; poi alla fine ho quattromila amici su Facebook che leggono le mie cose e c’è gente che mi riconosce in fila al supermercato, gente che non ha mai letto fumetti, pecoreccia, che ascolta la peggio musica e che mi legge. Al che ho capito che io sono così. Non sarò mai Gipi. Non perché lo consideri un gradino sotto o sopra, semplicemente siamo diversi. Io sono estremamente pop. Questa consapevolezza mi ha aiutato anche a liberarmi: “ma io sono così. Buono”.

D: Ti piaci così?
R: Sì sì, adesso sì. All’inizio di meno, perché avrei voluto essere… capito? Volevo piacere all’intellighenzia. Sai cos’è? Quando vuoi essere approvato dai santoni, inizi a scrivere nel modo che pensi possa piacere a loro, finendo col diventare mimetico, assomigliando un po’ a questo, un po’ a quello. È devastante, perché nel tempo te ne libererai ma ci vorrà un giro lungo. Invece tu devi coltivare te stesso, dicendo un po’ ‘affanculo, quasi contro. Poi ti capita un giorno come per me con la satira, che per me è davvero un canale minore, che ti trovi il santone che ti mette la mano sulla spalla e ti dice “io ti leggo tutti i giorni. Tu sei forte”.

D: Chi era il santone?
R: Sergio Staino. Anche altri, ma Staino è stato lo spartiacque. Io l’ho sempre letto, mi piace perché ha sempre fatto cose nelle quali mi ritrovavo abbastanza perché erano narrative, quasi una specie di sit-com. È il discorso di prima, io nella vignetta con battuta secca non mi ci ritrovo. Non che non sia buona, non è nelle mie corde.

D: Pensi di restare legato al fumetto? A questo stile di fumetto?
R: Mi sento legato al disegno più scrittura. Anche nelle mie raccolte, la parte puramente scritta la curo tanto quanto quella disegnata, mi richiede la stessa fatica, lo stesso tempo, non è soltanto un modo per rilegare il tutto. Io sono lì, in una terra di nessuno in cui scrivere è tanto importante quanto disegnare per cui non è che io ho voglia di disegnare e quindi mi trovo un pretesto narrativo, cosa che vedo fare a tanti. Vedo tanti fumetti disegnati da dio, con delle storie sotto che se tu le prendessi dal punto di vista narrativo, tolti i disegni, non sarebbero degne di una prima prova d’esame alla scuola di scrittura più stronza che ci sia. E questo è male.

D: Che altro dire, Marco, grazie di tutto e in bocca al lupo.
R: Grazie a te.

venerdì 7 ottobre 2011

Alla fine ci sono cascato anch'io: tre parole su Steve Jobs, le tifoserie e i bambini cinesi


Non c'è niente da fare, la sindrome del tifoso è sempre più diffusa, sempre più virale. Oramai un evento non è tale se non si formano due schieramenti che si danno contro a priori, senza se e senza ma, aggrappandosi a ogni dettaglio pur di trovare difetti nelle argomentazioni dell'avversario. Che ci volete fare, a noialtri ci piace litigare. E ci piace sentirci parte di qualcosa. La sindrome del tifoso soddisfa entrambe le esigenze perchè ci consente di far parte di un gruppo e ci dà la possibilità di insultare chi ne è al di fuori. E' l'umanità, baby.
Quindi forse dobbiamo rassegnarci, tutta la nostra sbandierata razionalità va a farsi fottere allegramente se abbiamo la possibilità di vestire una divisa e attaccare il nemico (sebbene la suddetta razionalità possa venir poi invocata per sostenere le proprie argomentazioni).
Poco importa se, in tutto questo, si perdono le sfumature e si uniforma tutto, riducendo ogni dibattito a una gara a chi urla più forte o a chi, per sfinimento, ottiene l'ultima parola - che, specie in rete, equivale spesso ad averla vinta, chissà poi perchè - perdendo così di vista il senso stesso della discussione.
Che poi, se provi a dire che la verità spesso sta nel mezzo, ti danno del democristiano, e allora ti viene da ritirarti in un angolo a guaire perchè certe cose fanno male.

Prendiamo la morte di Steve Jobs.
Da una parte c'è chi lo esalta come uno dei massimi geni della storia, dall'altra chi sminuisce il suo operato limitandosi a descriverlo come un bieco capitalista.
O l'una o l'altra, senza mediazione. Santo o bastardo.
E se fosse che la verità sta nel mezzo?
(DEMOCRISTIANO!)
... ahi
Proviamoci.
Prima di tutto, Steve Jobs era un uomo, che è morto a 56 anni. Presto, troppo presto. Non ve ne frega niente? A me un pochino sì, nel senso che mi dispiace.
Detto questo, Steve Jobs è stato un grande innovatore. Ha fatto grandi cose, dimostrando coraggio e una visione a lungo termine fuori dal comune. La sua è stata una "favola" di successo che merita un posto nella storia al pari di tante altre, anche grazie al suo carisma, che l'ha portato ad essere quasi "divinizzato" dai suoi fan (discepoli?). C'è anche da dire, però, che la favola di Page e Brin non mi pare meno ricca di intraprendenza e inventiva, ma, non avendo loro lo stesso carisma, dubito che verranno ricordati nella stessa maniera. Questo nonostante l'impatto del loro lavoro, oggi come oggi, sia forse (forse, non sfoderate gli artigli) maggiore di quello di Jobs. Insomma, è stato un grande uomo, e su questo non si discute, ma non era un dio, né tantomeno uno dei massimi guru che la storia ricorda - lui stesso consigliava di non vivere seguendo i risultati del pensiero di altri. 
Poi, e ciò è innegabile, è stato anche un capitalista, uno di quelli furbi. Ha saputo cavalcare il mercato al momento giusto, ha saputo giocare coi meccanismi del bisogno indotto creando aspettative spesso smodate, ha fatto sì che avere un Mac o un iQualcosa fosse cool, prima ancora che useful.
C'è poi la faccenda dei bambini cinesi sfruttati, e qui il terreno si fa scivoloso, perchè da un lato la battaglia contro i soprusi delle multinazionali è sacrosanta ma dall'altro non dobbiamo dimenticare che non esiste potere o innovazione che non generi anche della sofferenza. Non voglio giustificare nessuno, semplicemente constatare. E' l'umanità, baby. Non vi piace? Neanche a me, ma a questo punto, se volessimo davvero essere coerenti, dovremmo dire che Alessandro Magno non era un figo perché ha massacrato chissà quante persone in nome della sua visione; dovremmo disprezzare le opere artistiche del Rinascimento, essendo state spesso finanziate con soldi mica tanto puliti; dovremmo rinunciare a tutte quelle grandi scoperte scientifiche realizzate anche grazie ai finanziamenti militari.
E via dicendo.
Vi sentite sporchi? Lo siete. Lo siamo. E continueremo a scannarci su queste faccende, schierandoci aprioristicamente per una fazione o per l'altra, che si parli di Jobs, dell'Inter, del Signore Gesù, di Berlusconi, della cucina francese (che comunque quella italiana è meglio, e qui non ci sono cazzi). Perchè scannarci ci piace, ci fa sentire vivi.
Perchè, in fondo, siamo tutti troll.

martedì 4 ottobre 2011

Lasciami entrare


C’è poco da girarci intorno: Let me in è uno dei migliori film sui vampiri. Ever. Almeno fino a quando non avrò visto anche l’originale di cui questo è il remake.
Matt Reeves, già regista di Cloverfield, dirige e racconta con bravura e sensibilità il legame che nasce fra due ragazzini di dodici anni le cui solitudini si incontrano e si avvicinano nonostante le inusuali abitudini alimentari di lei che, peraltro, ha dodici anni da parecchio tempo. Sì, esatto, i protagonisti sono due ragazzini ma di quelli che non suscitano fastidio sin dalla prima inquadratura. Anzi. Tanto di cappello ai due attori, Kodi Smit-McPhee col suo sguardo timoroso e i sorrisi da innamorato, e la dolcemente inquietante Chloe Moretz. La storia è appassionante e romantica, mai gratuita, e raggiunge punte di struggente e disturbante tenerezza con l’abbraccio fra i due protagonisti, dove lei è ancora lorda del sangue dell’ultima vittima. Un film da vedere per chiunque ami la figura del vampiro, inteso come predatore tormentato e pericoloso, e non come bamboccio bel tenebroso che certe disgustose rivisitazioni in chiave emo-Harmony ci hanno inflitto di recente.
Ah, in italiano l’hanno tradotto Blood story, ma lasciamo perdere che è meglio, va.

giovedì 29 settembre 2011

Post a rete unificata

Parte da qui una bella e giusta iniziativa: invitare i blogger, chi frequenta e "abita" la rete a condividere, postare (anche su Facebook e Twitter), diffondere lo stesso post come segnale di protesta contro il comma 29, il cosiddetto ammazza-blog.

Qui si raccolgono tutte le adesioni, inserite l'url del vostro post.



ECCO IL TESTO DA DIFFONDERE: 

Cosa prevede il comma 29 del ddl di riforma delle intercettazioni, sinteticamente definito comma ammazzablog?
Il comma 29 estende l’istituto della rettifica, previsto dalla legge sulla stampa, a tutti i “siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica”, e quindi potenzialmente a tutta la rete, fermo restando la necessità di chiarire meglio cosa si deve intendere per “sito” in sede di attuazione. 

Cosa è la rettifica? 
La rettifica è un istituto previsto per i giornali e le televisione, introdotto al fine di difendere i cittadini dallo strapotere di questi media e bilanciare le posizioni in gioco, in quanto nell’ipotesi di pubblicazione di immagini o di notizie in qualche modo ritenute dai cittadini lesive della loro dignità o contrarie a verità, questi potrebbero avere non poche difficoltà nell’ottenere la “correzione” di quelle notizie. La rettifica, quindi, obbliga i responsabili dei giornali a pubblicare gratuitamente le correzioni dei soggetti che si ritengono lesi. 

Quali sono i termini per la pubblicazione della rettifica, e quali le conseguenze in caso di non pubblicazione? 
La norma prevede che la rettifica vada pubblicata entro due giorni dalla richiesta (non dalla ricezione), e la richiesta può essere inviata con qualsiasi mezzo, anche una semplice mail. La pubblicazione deve avvenire con “le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”, ma ad essa non possono essere aggiunti commenti. Nel caso di mancata pubblicazione nei termini scatta una sanzione fino a 12.500 euro. Il gestore del sito non può giustificare la mancata pubblicazione sostenendo di essere stato in vacanza o lontano dal blog per più di due giorni, non sono infatti previste esimenti per la mancata pubblicazione, al massimo si potrà impugnare la multa dinanzi ad un giudice dovendo però dimostrare la sussistenza di una situazione sopravvenuta non imputabile al gestore del sito. 

Se io scrivo sul mio blog “Tizio è un ladro”, sono soggetto a rettifica anche se ho documentato il fatto, ad esempio con una sentenza di condanna per furto? 
La rettifica prevista per i siti informatici è quella della legge sulla stampa, per la quale sono soggetti a rettifica tutte le informazioni, atti, pensieri ed affermazioni ritenute dai soggetti citati nella notizia “lesivi della loro dignità o contrari a verità”. Ciò vuol dire che il giudizio sulla assoggettabilità delle informazioni alla rettifica è esclusivamente demandato alla persona citata nella notizia, è quindi un criterio puramente soggettivo, ed è del tutto indifferente alla veridicità o meno della notizia pubblicata. 

Posso chiedere la rettifica per notizie pubblicate da un sito che ritengo palesemente false? 
E’ possibile chiedere la rettifica solo per le notizie riguardanti la propria persona, non per fatti riguardanti altri. 

Chi è il soggetto obbligato a pubblicare la rettifica? 
La rettifica nasce in relazione alla stampa o ai telegiornali, per i quali esiste sempre un direttore responsabile. Per i siti informatici non esiste una figura canonizzata di responsabile, per cui allo stato non è dato sapere chi sarà il soggetto obbligato alla rettifica. Si può ipotizzare che l’obbligo sia a carico del gestore del blog, o più probabilmente che debba stabilirsi caso per caso. 

Sono soggetti a rettifica anche i commenti?
Un commento non è tecnicamente un sito informatico, inoltre il commento è opera di un terzo rispetto all’estensore della notizia, per cui sorgerebbe anche il problema della possibilità di comunicare col commentatore. A meno di non voler assoggettare il gestore del sito ad una responsabilità oggettiva relativamente a scritti altrui, probabilmente il commento (e contenuti similari) non dovrebbe essere soggetto a rettifica.

QUI l'articolo completo

@valigia blu - riproduzione consigliata

lunedì 26 settembre 2011

Pirati e bambini nel bel mezzo di Roma


Intendiamoci, il Pan di Dimitri è un romanzo nerd, di quelli pieni di riferimenti esoterici, dove si citano giochi di ruolo e miti di Cthulu, e dove i buoni leggono fumetti, imparano a far magie e si accoppiano con fate iperfighe. Per questo ci piace. Ci piace anche perché è fatto bene: l’intreccio è ben costruito e avvincente, i personaggi ben caratterizzati, il ritmo non cala nei passaggi da una sottotrama all’altra, e i dialoghi sono scorrevoli e credibili. Come spesso accade, c’è il rischio di ritrovarsi a simpatizzare per il cattivo, specie quando il presunto buono è un essere arrapato e violento, incapace di riflettere per più di tre secondi, con un seguito di bambocci, fricchettoni, sognatori (ah, i sognatori) e black bloc, e un’idea di libertà che, in realtà, non è molto meno tirannica di quella del suo avversario. Alla fine, però, ognuno ha ciò che merita. Vinca il male minore, insomma. In generale, Pan ci piace perché è una storia avventurosa con più livelli di lettura e un’idea di base tutt’altro che banale. D’accordo, non mancano difetti stilistici sui quali, a parte l’eccessivo e fastidioso uso delle parentesi, si può però soprassedere e godersi tutto il resto.
Consigliata la versione in ebook.

martedì 20 settembre 2011

Lo Spielberg d’Oriente colpisce ancora.


È palese che per Tsui Hark la coerenza di una trama e la sua spettacolarità siano destinate a una convivenza poco pacifica. Siccome lui si gasa parecchio per la seconda, va da sé che si fa pochi problemi a sacrificare la prima, se necessario. Il che ci può stare per certi film, ma se vuoi raccontare una storia investigativa allora io do peso ai dettagli, e se quei dettagli sono confusi e non sempre curati allora ci sta che mi venga da storcere il naso. Sull’ambientazione di Detective Dee niente da dire se non “bravo”: questa Antica Cina molto wuxia e con spruzzate di fantasy funziona, e pure i personaggi sono interessanti. A metà film, però, fra calci, pugni e robe strane non si capisce più tanto bene chi sta con chi e chi ce l’ha con chi e via dicendo. Forse che Tsui Hark vuole farci capire che la faccenda è incasinata? O magari era troppo preso dall’ennesima piroetta con fendente laterale multiplo per dedicarsi a quisquilie come la narrazione? Nel finale, Dee sventa il piano del cattivone, che però riesce lo stesso solo per permettere a Dee di sventarlo di nuovo con un eroico intervento sul filo del rasoio, per poi propinarci il discorsone ispirato finale, dal che capiamo che la morale del film è la brutta copia di questo.
Alla fine si resta con la sensazione che qualche acrobazia di meno e qualche sforzo in più a livello di trama avrebbero evitato a Detective Dee di fermarsi alla categoria “carino, però…” 

lunedì 19 settembre 2011

Non per far di tutta la merda un fascio, ma...

Dice che quelli di sinistra sono presuntuosi che si credono superiori, sempre pronti a fare i professorini con il mignolino alzato, con i loro maglioncini di cachemire e le loro pipe in radica, sempre a dare lezioni di morale e via dicendo.
Dice che a sinistra rubano come a destra (e qui si potrebbe aprire una lunga parentesi sul numero degli inquisiti, sull’entità delle mazzette e, soprattutto, sulle diverse reazioni che di là e di qua si hanno una volta colti con le mani nella marmellata. Ma siccome è lunedì, facciamo che rimandiamo), che han poco da insegnare, che almeno Silvio è schietto e non si nasconde, che è buono e aiuta le persone, che è un perseguitato, che non c'è niente di male a svagarsi un po' e basta che poi rimetto la colazione.
Per carità, presunzione e arroganza non mancano dalle nostre parti, e la convinzione che gli elettori di Silvio o siano beoti o amino parcheggiare in doppia fila è, purtroppo, parecchio diffusa. Sono il primo a non sopportare chi pensa di avere la verità in tasca e si comporta di conseguenza.
Poi però si sentono robe del genere e di colpo mi ricordo che, sì, sono superiore e non solo non mi vergogno di ammetterlo, ma me ne bullo pure.

venerdì 2 settembre 2011

Piccoli mutanti crescono


Per dio se va veloce, X-men – First class. Corre a perdifiato, ansioso di arrivare al dunque e la fretta, si sa, non sempre aiuta nel creare la giusta tensione narrativa. Di contro, va detto che il film intrattiene e diverte senza annoiare, e l’idea di ambientare il tutto durante la crisi dei missili di Cuba non è male. Se poi si guarda agli attori, non ci si può che complimentare per la scelta di Michael Fassbender per il ruolo del giovane e incazzato Erik Lensherr, indiscusso protagonista del film. A tenergli testa, nei panni di Charles Xavier, un James McAvoy un po’ troppo frivolo ma tutto sommato convincente e un Kevin Bacon preso bene dal suo ruolo di villain. Ah, c’è pure una divertente comparsata di Hugh Jackman.
Ovviamente gli autori si sono presi alcune libertà rispetto ai personaggi originali ma, come sempre, lamentarsi della non perfetta corrispondenza fra film e fumetto è poco più di una perdita di tempo. Quel che conta è che alla fine, benché lontano dalla prima trilogia dedicata ai mutanti, X-men – First class sia comunque un discreto film, di certo superiore al suo discutibile predecessore.

lunedì 29 agosto 2011

Si parla di draghi, ma a danzare sono gli uomini

Vi aspettavate che in A dance with dragons si risolvessero un po’ di sotto-trame? E invece no! Anzi, Martin butta nella mischia un nuovo pretendente al trono, ritarda incontri molto attesi, fa indugiare personaggi, semina nuovi dubbi e rispolvera vecchie conoscenze. E siccome ogni storia vera è anche fatta di tempi morti, dubbi e tentennamenti, Martin sceglie di raccontarci pure questi.
È un bene o un male? Questione di gusti. Quel che è certo è che la capacità di Martin di entrare sotto la pelle dei personaggi, mettendone a nudo desideri, debolezze e fragilità, è magistrale. Più empatia che epica, insomma; una scelta tanto ambiziosa quanto difficile poiché il rischio di deragliare – perdendosi in troppe divagazioni, colpi di scena e via dicendo – è altissimo. La ricompensa però può essere grande, poiché è chiaro che The song of ice and fire ha ormai travalicato i confini della classica saga fantasy: con tutto il suo parlare di draghi e profezie, Martin ci sta in realtà raccontando l’uomo. E, per dio, lo fa splendidamente.

martedì 21 giugno 2011

E questo è solo l’inizio

Il primo giro di giostra è finito e in tanti non vorrebbero scendere, ancora carichi di adrenalina. Solida e drammatica introduzione alle trame e alle atmosfere del mondo creato da Martin, sporco e brutale come il Medioevo cui è ispirato, questa prima stagione di Game of Thrones si è chiusa con un intenso crescendo, culminante in una delle scene più attese dai fan. Un’attesa non delusa, che non fa che confermare l’alto livello della produzione targata HBO. Tolti i pochissimi elementi magici, simbolicamente antitetici – i White Walkers venuti dal freddo in apertura e i draghi nati dal fuoco nel finale – rimane il crudo realismo di una saga nella quale neanche il più classico dei protagonisti è al sicuro. Strepitoso il cast, con Peter Dinklage e Michelle Fairley una spanna sopra tutti senza però scordarsi di Sean Bean e Maise Williams, e di notevoli seconde file del calibro di Iain Glein e Jerome Flynn.
Continuare su questo livello non sarà semplice, soprattutto a causa delle spese destinate a crescere – i draghi, i meta-lupi che crescono, le battaglie – ma l’ottimo lavoro fatto finora lascia ben sperare.

giovedì 2 giugno 2011

Quando la leggerezza si inceppa

Lascia l’amaro in bocca questa raccolta di racconti di Schmitt. Ci si chiede dove sia finita quella grande capacità – di cui l’autore francese aveva dato ampia prova in altre occasioni – di rovistare a fondo nell’animo dei propri personaggi fino a portare a galla la complessità, e al tempo stesso la semplicità, dei loro sentimenti.
La scrittura di Schmitt è pulita e scorrevole, d’accordo, e alcuni racconti sono interessanti.”Carini”, verrebbe da dire. È sullo stile, però, che casca l’asino. Invece di far trasparire gli stati d’animo dei personaggi attraverso quei dialoghi serrati e intensi che sa scrivere, l’autore francese decide di spiegare per filo e per segno cosa avviene nella loro testa. Il tono si fa didascalico, troppo esplicito e per niente allusivo, e le situazioni diventano prevedibili, a volte fastidiosamente caricaturali. Stupisce poi che proprio il racconto che dà il titolo al libro, e che nasce dal film che l’autore ha diretto, sia il più banale di tutti.
Un libro leggibile, insomma, senza aspettarsi troppo, per poi dimenticarlo in fretta.

sabato 9 aprile 2011

Viaggio nel cuore del petrolio

Martin Klein viene spedito dall’Ente nel cuore dell’Africa per occuparsi di alcuni pozzi petroliferi, in una zona resa pericolosa dalla presenza di banditi e ribelli, viene rapito e sulle sue tracce viene mandato un “esperto” che dovrà risalire un fiume cupo e antico in cerca di un uomo addentratosi troppo a fondo nel famigerato cuore di tenebra. Il capolavoro di Conrad, di cui Delta blues è una cover dichiarata, incedeva lento e volutamente pesante nel descrivere la decomposizione dell’ordine di una società che andava a confrontarsi con il proprio lato oscuro; il nuovo romanzo dei Kai Zen, al contrario, va troppo di fretta, senza dare il tempo di respirare appieno la cupa atmosfera della vicenda. Passate le prime cento pagine, il libro si fa più solido e interessante: il ritmo rallenta, tranne alcune lampi di violenza ben descritti, fino ad arrivare a un finale che non può non essere crudo, ma che concede spazio a un ottimismo credibile e non ingenuo.
Nonostante i difetti – una certa incostanza narrativa e uno stile pulito ma anche a rischio monotonia – Delta blues riesce ad essere una discreta lettura, ben documentata e in grado di denunciare senza scivolare in facilonerie fanatiche e toni apocalittici.

martedì 29 marzo 2011

Sucker Punch... sucks

Volete godervi Sucker Punch? Allora fate così: andate al cinema, gustatevi l’ottima intro e attendete il primo scontro: Baby Doll vs tre enormi samurai – uno dei quali armato con un Vulcan. No dico, un Vulcan – sulle note di questa canzone. Godete forte, dopodiché alzatevi e andatevene; il film non avrà altro da offrirvi. E lo dico con la tristezza nel cuore perché di ambizioni Sucker Punch ne aveva parecchie: una storia lineare su cui si innesta un mix di immagini e suggestioni pescate da generi diversi, in stile Kill Bill, con in più un gioco di “sogno dentro al sogno” che ricorda un po’ Inception. Tarantino e Nolan, però, sono lontani eoni. Snyder aveva sempre lavorato con sceneggiature non sue, e gli converrebbe continuare su quella strada: ogni volta che uno qualsiasi dei personaggi apre bocca, sentirete in sala l’inconfondibile rumore di un paio di testicoli che si schiantano al suolo. Riuscire a rendere noioso un film in cui fiche in gonnella si pestano con samurai, orchi, draghi, nazi e robot, con una martellante colonna sonora, e una bella idea di fondo, era impresa difficile. Zack Snyder c’è riuscito, buttando dentro di tutto ma senza amalgamare e, soprattutto, prendendosi troppo sul serio.
Ah, dimenticavo, questo film ha anche una morale.
Rimandato a settembre, Zack.

martedì 15 marzo 2011

L’assassino riluttante

C’è il ragazzo vincolato a un destino più grande di lui; c’è il burbero e fedele soldato; ci sono il vecchio re, il giovane e coraggioso principe, e il di lui viscido fratello; c’è il giullare che profetizza; c’è la magia buona e quella eretica, le leggende col loro carico di verità, le profezie che poi alla fine ci azzeccano e la temibile minaccia contro cui sembra non esserci speranza. La solita zuppa, direte voi.
E invece no, perché ai fornelli c’è Robin Hobb, una che il mestiere lo conosce. Non vi stupirà con trovate eclettiche, sapori esotici o uno stile estroso; al contrario, vi conquisterà con la semplicità della sua ricetta, tenendovi inchiodati al piatto, cucchiaio dopo cucchiaio, senza alcuna fretta.
Ne L’apprendista assassino la Hobb apparecchia la tavola presentandoci i diversi personaggi e i conflitti nei quali vengono coinvolti. Nonostante un finale un po’ frettoloso il libro riesce nel suo intento: catturare l’attenzione del lettore, trascinandolo nel medioevo low-fantasy dei Sei Ducati e nella testa tormentata del protagonista Fitz, figlio bastardo di un erede al trono e, suo malgrado, apprendista assassino. L’assassino di corte, il migliore della trilogia, non solo ci mostra il dispiegarsi di tutti i conflitti, ma introduce anche quel gran personaggio che è Occhi-di-notte, e si conclude con un fondamentale e drammatico snodo di trama, splendidamente raccontato. Il viaggio dell’assassino, infine, è il massiccio resoconto dell’ultima sfida di Fitz: un classicone del fantasy, il viaggio in terre ignote in cerca della soluzione del problema. Nella seconda metà del libro si va un po’ per le lunghe ma ciò non impedisce alla tensione di restare alta e al finale di essere convincente e credibile.
Nel complesso, quella dei Lungavista è una solida trilogia con toni da romanzo di formazione, i cui punti forti sono l’intreccio delle relazioni fra i diversi personaggi, sufficientemente drammatico da tenere in movimento la trama ma mai troppo forzato da risultare poco plausibile, e la scelta di soffermarsi anche su quelle azioni e situazioni non sempre funzionali alla storia ma indubbiamente efficaci nel renderla più ricca e verosimile, e pazienza se ciò significa doversi leggere parecchie pagine in più. Una volta terminata la lettura, anche di quelle sentirete la mancanza.

giovedì 17 febbraio 2011

Machete don’t text. Machete improvises

Tolta l’eccezione Sin City, nel cui soggetto peraltro non c’era nulla di suo, da queste parti Rodriguez non è mai stato apprezzato come autore. Poi però un giorno ha messo un finto trailer in uno dei suoi filmacci e da lì, per nostra fortuna, è nato Machete. In sostanza l’idea del film è questa: si prende come protagonista Danny Trejo, un messicano fatto di capelli e corteccia, e gli si dà un buon motivo per vendicarsi di uno Steven Seagal talmente sovrappeso che nel duello finale ha il fiatone dopo ogni fendente. Per rendere più intrigante la cosa si aggiungono un po’ dei soliti cattivi idioti, più De Niro e Don Johnson – dico, Don Johnson – che si divertono a fare i viscidi bastardi. Poi, siccome il tutto non è ancora abbastanza virile, si butta dentro pure una sventolata di fighe mica da ridere: Lindsay Lohan, che più o meno interpreta sé stessa nella realtà, Jessica Alba che neanche qui riesce a recitare decentemente ma chissenefrega, e Michelle Rodriguez, che regna senza bisogno di spiegare perché. Il tutto in un delirante crescendo di gratuita e assurda terronaggine, che alla fine sei contento perché era proprio quello che volevi.

martedì 8 febbraio 2011

Quando il cattivo con la pistola incontra la bionda con la pistola...

Ma chissenefrega della trita e ritrita storia di vendetta personale e della rivedibile e prevedibile sceneggiatura: The quick and the dead è un carrozzone stupido e fracassone, ma con un grande pregio: è divertente. L’importante è sapere che c’è un gran cattivone, che poi è Gene Hackman che interpreta Gene Hackman che interpreta il villain di turno, che morirà solo dopo che tutta una serie di biechi e grotteschi banditi l’avrà preceduto. Poi c’è Di Caprio che fa lo sbruffone, Crowe che fa l’ex criminale convertito che non vorrebbe più uccidere però insomma quando ci vuole ci vuole e, invece del solito pistolero senza nome, qui abbiamo Sharon Stone. Intendiamoci, Sharon è lì solo in quanto figa imbarazzante e quando prova a recitare viene da ringraziare gli dei che il suo sia un personaggio di poche parole, però nel complesso ci sta. In soldoni il film di Raimi, più che un western è la caricatura di un western, ma in fondo il buon vecchio Sam ci piace proprio perché è un guascone che non si piglia troppo sul serio e sa come intrattenere.

domenica 30 gennaio 2011

Bah...

Il sesso ai tempi dell’happy hour. Con un sottotitolo così è chiaro che l’opera prima della blogger Nadiolinda vorrebbe essere una sorta di indagine sociologica semi-seria sui gusti sessuali dei trentenni del giorno d’oggi. Il culo femminile con sopra un bicchiere da cocktail in copertina sembrerebbe confermare questa ipotesi. Fin dalle prime pagine però, si capisce di cosa voglia veramente parlare l’autrice: di sé stessa. Il libro non è altro che un resoconto delle sue avventure erotiche, intriso di esibizionismo. Il culo dell’autrice in copertina non fa che confermare questa ipotesi. Nadiolina scrive in tono colloquiale e senza usare le maiuscole; le piace fare quella che parla senza peli sulla lingua, che fustiga i maschi e pure certe categorie di femmine, che sa essere spiritosa ma anche pronta a tirar fuori riflessioni profonde. In realtà spesso si perde in luoghi comuni e battute troppo tirate per essere davvero spiritose. Magari tutto ciò può funzionare su un blog, ma su carta scorre via come acqua fresca, senza lasciare il segno.

martedì 18 gennaio 2011

La velocità ha tre dimensioni, proprio come la vita. O il vento

Sono la trentaquattresima Orda. Sono partiti anni fa dall’Estrema Valle, diretti alla mitica Estrema Vetta, che nessun’altra Orda ha mai raggiunto. Ad ostacolarli, il vento implacabile che da sempre flagella il mondo. Ogni membro dell’Orda ha il suo ruolo, la sua storia e le sue emozioni, che Damasio ci racconta attraverso i loro stessi punti di vista, senza alcun filtro da narratore onnisciente, preferendo coinvolgere piuttosto che spiegare; non vuole descrivere la storia, vuole farla sentire. E ci riesce, per dio se ci riesce. Grazie al suo stile eccentrico e sperimentale, Damasio crea un tessuto di parole denso che dà corpo tanto alle sensazioni dei protagonisti quanto al vento nelle quali esse sono immerse, e che finisce col rapirti e catapultarti lì, in mezzo a loro, ad affrontare enigmi, angosce, amori e pericoli. Ok, a volte l’autore francese calca un po’ la mano con tecnicismi e filosofeggiamenti, ma ciò non impedisce a L’Orda del vento di essere un grande libro, che combina epica, romanzo di formazione e avventura low-fantasy in un mix narrativo e simbolico che nulla ha da invidiare alla letteratura cosiddetta “alta”.

sabato 8 gennaio 2011

Chi l’avrebbe mai detto, una persona così perbene...

Fintanto che il Male ci fissa coi suoi occhi iniettati di sangue e la sua bocca sbavante rabbia, allora non c’è problema. O meglio, c’è, ma lo sappiamo identificare, lo riconosciamo, possiamo isolarlo e combatterlo. Che fare, invece, quando il Male ha il viso rassicurante di Lou Ford, vicesceriffo di una piccola città del Texas? Lou è tranquillo, forse a volte un po’ noioso ma di certo è un brav’uomo, di quelli che sanno ascoltare e che hanno interessi per i problemi degli altri. Peccato solo che nella sua testa ci sia qualcosa che non va, un qualcosa che affonda le sue radici nel passato, un qualcosa che ha a che fare con la violenza e con le donne.
Lo stile di Thompson è asciutto e raffinato, ma ciò non basterebbe a rendere The killer inside me il grande libro che è; il suo merito sta nel mostrarci Lou per quello che è: un essere umano, per quanto disturbato. Thompson sceglie di farci raccontare tutta la dannata vicenda proprio da Lou, pienamente consapevole di quella sua ‘malattia’ che ora, dopo quindici anni, potrebbe tornare ad affliggerlo, rendendoci partecipi dei suoi pensieri, della sua emotività dissociata, delle sue paranoie, della logica spietata eppure terribilmente coerente che sta dietro a ogni sua azione.

VERSIONE APPROFONDITA (AtlantideZine)