domenica 15 dicembre 2013

E così, alla fine ho fatto l'upgrade e mi sono trasferito su altri lidi. Il che corrisponde anche a un'evoluzione di tutto l'ambaradan.
Stay tuned.

lunedì 9 settembre 2013

L'apocalisse sta nei dettagli

Frank Schätzing ha studiato e ci tiene a farcelo sapere. Il suo eco-thriller catastrofista Il quinto giorno è infarcito di informazioni scientifiche dettagliate, che spaziano dal comportamento delle balene alla struttura degli idrati di metano subacquei, dall'ingegneria delle torri di trivellazione al funzionamento dei satelliti. Questo perché il buon Frank sceglie di far crescere la tensione dell'imminente minaccia attraverso i tanti segnali anomali che scienziati da diverse parti del mondo rilevano. C'è poco di hollywoodiano in questa scelta, perché laddove sarebbe bastato dire "ehi, balene, orche e caravelle portoghesi attaccano l'uomo, mentre strani vermi fanno strane cose sui fondali", Frank sceglie di evitare climax facili ma spesso grezzi e irreali, preferendo raccontare il lento ma costante accumularsi dei dati, con gente che si emoziona per un'analisi di laboratorio o per una simulazione al computer.
Problema Numero Uno: ogni tanto gli scappa la mano e il flusso di informazioni diventa una slavina di info-dumping, della quale a volte si farebbe anche a meno. Ciò non impedisce al libro di catturare l'attenzione, di costruire un crescendo di tensione avvincente intorno a dei protagonisti solidi e credibili, con la loro onesta dose di conflitti interiori e rapporti umani da gestire. E se durante la lettura buona parte dei comprimari si confonderanno in un grumo nebbioso di nomi e competenze, poco importa, andate avanti, che drammi ed emozioni sono assicurati. Ecco infatti che dall'emergenza si arriva alla reazione, molte strade finalmente si incontrano e si comincia a comprendere la sconvolgente verità, dopodiché si procede inesorabilmente verso la soluzione del conflitto.
E si incappa nel Problema Numero Due.
Infatti, dopo aver resistito per ottocento pagine, Frank alla fine cede e Hollywood irrompe di peso nella storia. Intendiamoci, non che ciò sia un male a prescindere, ma dopo aver sviluppato un dramma planetario costruito su un'impalcatura complessa e sofisticata, risolvere il tutto a colpi di azione e stereotipi non è proprio il massimo. C'è quello che deve redimersi, quello che "amico, non ti lascio qui", i brutti militari americani, quello che crepa pensando alla sua casa sul lago e via dicendo. E poi gli inconvenienti all'ultimo secondo - dal motore che non parte al passaggio che si blocca -, sacrifico ed eroismo, buoni e cattivi. Una brusca virata che costringe a semplificare le soluzioni e, dopo tutto 'sto casino, era lecito aspettarsi un escamotage un po' meno banale per salvare il mondo. Ciò non toglie che Il quinto giorno sia un librone ben fatto, scritto con uno stile forse un po' anonimo ma funzionale e scorrevole, con buoni dialoghi e buoni personaggi, e parecchio ben documentato. Pure troppo.

Contro la dittatura dei geni

Cosa determina il nostro aspetto fisico? Cosa definisce il nostro maggiore o minore livello di intelligenza? Cosa influisce sul nostro comportamento, sui nostri gusti sessuali, sulle nostre probabilità di successo nella società? Secondo molti, la risposta a queste domande è sempre la stessa: i geni.
Il travolgente successo della genetica ha reso il gene un paradigma dominante non solo nella biologia moderna ma anche nell’immaginario collettivo, un paradigma secondo il quale nell’informazione genetica è contenuto tutto ciò che definisce gli esseri viventi – e quindi anche l’uomo – dal punto di vista fisico e comportamentale. Negli ultimi decenni è emerso un pensiero gene-centrico forte, una metafisica determinista alla quale, per dirla con le parole di Bertrand Jordan, biologo molecolare, «non aderiscono solo i giornali e i giornalisti, che quasi ogni giorno ci propongono l’identificazione di un qualche gene che, in modo del tutto improbabile, governerebbe i nostri caratteri più complessi e i nostri comportamenti più personali. A questa metafisica aderiscono, spesso, anche alcuni uomini di scienza. E persino qualche biologo». Jordan scriveva queste parole in un libro dal titolo significativo, Gli impostori della genetica, ma già una decina di anni prima c’era stato chi si era scagliato contro il determinismo genetico. Si tratta del genetista Richard Lewontin, classe 1929, uno dei pionieri della genetica delle popolazioni e dell’evoluzione molecolare, autore di un libro breve e intenso, anch’esso dal titolo estremamente significativo, Biologia come ideologia, edito in Italia da Bollati Boringhieri.
Nel 1990, Lewontin venne invitato a tenere le Massey Lectures, delle lezioni radiofoniche che ogni anno, per una settimana, vengono organizzate in Canada su temi politici, culturali e filosofici. Da quel ciclo di discorsi nacque in seguito questo libro.
Due sono i binari su cui si muove la critica di Lewontin. Il primo è quello scientifico; il genetista americano spiega come il determinismo genetico sia basato su ipotesi deboli, dal momento che già negli anni ‘90 si sapeva che l’informazione contenuta nel genoma non era “il” linguaggio della vita bensì “uno dei” linguaggi della vita. Durante la formazione di un individuo, dall’uovo fecondato all’adulto, i processi di sviluppo embrionale e i fattori ambientali possono infatti interferire con l’attività dei geni, spegnendoli e attivandoli. In più, gli stessi prodotti dei geni, le proteine, possono a loro volta agire sull’espressione genica, modificandola. Risulta dunque chiaro che il gene non è la “molecola capo” che siede in cima a una gerarchia biologica, bensì un elemento integrato in un sistema complesso, che influenza ed è a sua volta influenzato dagli elementi che lo circondano.
Lewontin prosegue allargando il campo e andando ad affrontare il tema della sociobiologia, una corrente della sociologia secondo la quale esistono geni per ogni forma di comportamento sociale, dalla religiosità all’intraprendenza, dal dominio sessuale alla xenofobia, geni che quindi dovranno passare il filtro della selezione naturale per guadagnarsi un posto al sole nella società. Se i geni determinano gli individui e gli individui determinano la società, ne consegue che i geni determinano la società. Una società la cui fissità e le cui gerarchie sarebbero dunque “giustificate” dalla natura biologica delle sue componenti individuali. E allora, «se tre miliardi di anni di evoluzione ci hanno resi quel che siamo, crediamo davvero che un centinaio di giorni di rivoluzione ci cambieranno?», chiede provocatoriamente Lewontin.
Alla dimensione sociale del determinismo genetico il genetista americano dedica le pagine più polemiche. Secondo lui, il pilastro su cui si regge questa visione distorta della biologia è la falsa distinzione fra individuo e ambiente e, più in generale, fra interno ed esterno. Una distinzione che porta a isolare le singole componenti di un sistema, sia esso biologico o sociale, creando l’illusione che queste unità individuali e autonome determinino con assoluta certezza le proprietà dell’insieme, biologico o sociale, in cui si riuniscono. Una distinzione che non considera come le interazioni reciproche fra le singole componenti possano far sì che proprietà inesistenti a livello individuale emergano poi nel passaggio al livello di gruppo. L’origine di questo riduzionismo esclusivo ed estremo è associata, secondo Lewontin, al passaggio dalla società feudale, priva com’era di libertà individuale, a quella capitalista e iper-competitiva. «Questa concezione individualistica del mondo biologico,» scrive infatti l’autore, «è semplicemente un riflesso delle ideologie rivoluzionarie borghesi del secolo XVIII che collocarono l’individuo al centro di ogni cosa». La scienza non è un’entità superiore e distaccata ma un’istituzione sociale immersa nella realtà del proprio tempo, che influenza e dalla quale è influenzata, secondo quel principio di interattività che è alla base del pensiero del genetista di Harvard.
Dal punto di vista stilistico, Lewontin ha scelto, come lui stesso racconta nell’introduzione, di mantenere i toni discorsivi della radio. Scelta efficace dal punto di vista comunicativo, poiché contribuisce a tenere alto il ritmo e a non smorzare la forza polemica del testo, ma che costituisce anche il suo tallone di Achille. Certi passaggi – come quello sulla tubercolosi e le sue vere cause – vengono infatti affrontati con una rapidità che potrebbe disorientare, e talvolta anche disturbare, più di un lettore. Si potrebbe obiettare che l’importante è dare stimoli e spunti per una discussione critica del problema, il che è vero, ma ciò smaschera il secondo difetto del libro, e cioè la scarsità della sua bibliografia. Un maggior numero di riferimenti aiuterebbe infatti il lettore ad approfondire i temi, tanti, che Lewontin tira in ballo.

Si tratta di due difetti tutto sommato secondari, che non intaccano la forza del pensiero del genetista di Harvard. Che piacciano o no, le sue critiche smascherano questioni reali e attualissime anche a vent’anni di distanza, il che rende questo libro una lettura necessaria, per ricordarci quei problemi che né la società né tantomeno la scienza possono permettersi di trascurare.

giovedì 5 settembre 2013

Il futuro immaginato che ci racconta il nostro presente

Fu nel maggio del 1942 che si sentì parlare per la prima volta della Fondazione. In quella data, infatti, la rivista di fantascienza americana Astounding Science-Fiction pubblicava un racconto intitolato proprio Fondazione, firmato da un certo Isaac Asimov. Ne seguirono altri, sette per la precisione, che insieme a un ottavo mai uscito sulla rivista furono raccolti in tre libri – Fondazione (1951), Fondazione e Impero (1952) e Seconda Fondazione (1953) – che divennero rapidamente una pietra miliare della fantascienza.

La storia narrata nella trilogia si dipana su un arco temporale di poco meno di 400 anni, seguendo le vicende che ruotano intorno al crollo dell’Impero Galattico e al periodo di decadenza che ne deriva. Una colossale crisi che però era stata prevista da qualcuno; si tratta di Hari Seldon, il massimo esperto di una disciplina scientifica nota come psicostoriografia, che consente di analizzare matematicamente le variabili politiche, sociali ed economiche al punto da poterle addirittura predire. Sapendo che nessun governante prenderà sul serio le sue previsioni, Seldon inizia a predisporre delle contromisure per fronteggiare l’imminente disastro. Lo scienziato sa benissimo di non poter fermare il crollo dell’Impero ma è convinto di poter ridurre la successiva barbarie salvaguardando il sapere scientifico. A questo scopo, istituisce due Fondazioni, poste ai due estremi della Galassia. Saranno proprio queste due Fondazioni le vere protagoniste della trilogia; soprattutto la prima, poiché l’esistenza della seconda rimane un mistero per gran parte della storia.

Già solo leggendo la trama si capisce come la fantascienza di Asimov fosse, in un certo senso, fuori dagli schemi: invece di parlare di alieni e viaggi nell’ignoto, che ai tempi andavano per la maggiore, lo scrittore americano di origini russe preferì raccontare vicende politiche e sociali, in buona parte caratterizzate da una certa verosimiglianza scientifica. Non bisogna infatti dimenticare che Asimov era laureato in chimica ed eccelleva nella divulgazione, ambito per il quale addirittura abbandonò quasi completamente la narrativa fra il 1960 e il 1970. Un particolare, questo, di cui è importante tenere conto quando si valuta il suo stile, estremamente asciutto e lineare, a volte fin troppo. Asimov voleva soprattutto farsi capire. Poco interessato all’azione, preferiva dare spazio alla storia, in un fluire di eventi e personaggi che però, di tanto in tanto, risulta essere troppo rapido. Ciò è soprattutto vero nel primo libro, che racconta l’espansione della Prima Fondazione, dove l’evidente natura a puntate del romanzo fa sì che l’avvicendarsi dei suoi primi eroi e delle loro vicende non sempre dia tempo al lettore di affezionarsi ad alcuni di essi. Nei due libri successivi lo scorrere della narrazione rallenta, consentendo un maggiore approfondimento. Non a caso, alcuno dei personaggi più interessanti – come Bayta, il Mule, Pritcher, Arcady – entrano in scena a partire da qui. Ciò non toglie che la maggior attenzione che Asimov dedica allo scorrere degli eventi contribuisca a dare l’idea del grande macchinario della Storia, che avanza lungo un percorso sul quale i singoli individui hanno spesso poca occasione di intervenire.

Questo percorso è stato però previsto da Seldon, seppure in maniera probabilistica, il che l’ha portato a elaborare un piano che consentisse alle Fondazioni di sopravvivere agli inevitabili scossoni cui la Storia le sottoporrà. L’invenzione della psicostoriografia si rivela una delle intuizioni più felici di Asimov, che tira fuori dal cilindro un potente spunto narrativo in grado di combinare la solidità e la credibilità di un approccio scientifico rigoroso con l’elemento profetico che richiama l’epica della mitologia. Non a caso, nel corso della storia, la scienza della Fondazione arriverà a essere percepita come una forza sovrannaturale e i suoi studiosi come temibili maghi, da parte degli abitanti di altri pianeti, travolti da una decadenza non solo politica ed economica ma anche culturale e scientifica. Come non sorridere di fronte all’immagine dei tecnici della Fondazione, venerati come sacerdoti e, in quanto tali, unici detentori dei segreti dell’energia atomica? Questo artificio consente ad Asimov di muoversi su più binari narrativi, innestando elementi di generi diversi – poliziesco, spy story, thriller politico, avventura e addirittura romanzo distopico – sulla struttura di un classico della sci-fi come la space opera.

Ma la psicostoriografia, per quanto basata su rigorose formule matematiche, ha ovviamente i suoi limiti. Per esempio, funziona solo quando applicata a popolazioni umane estremamente numerose. Inoltre, la stragrande maggioranza di queste popolazioni deve essere all’oscuro delle sue predizioni. Ma soprattutto, essa non può prevedere il comportamento dei singoli individui. Un problema ben spiegato da Bayta Darell, eroina del secondo libro: “Le leggi della storia sono assolute come quelle della fisica, e se in essa le probabilità di errore sono maggiori, è solo perché la storia ha a che fare con gli esseri umani che sono assai meno numerosi degli atomi, ed è per questa ragione che le variazioni individuali hanno un maggior valore.” È proprio nel secondo libro che il pericolo rappresentato dalle variazioni individuali si scatena: compare infatti sulla scena il Mule, un mutante dotato di grandi poteri, in grado di controllare l’emotività delle persone. Di fronte a un singolo caso così eccezionale, il Piano Seldon rischia di sfaldarsi. Difficile non vedere, nell’ascesa del Mule, la rappresentazione del dittatore che affascina le masse e stravolge il corso della storia; i capitoli dedicati al gerarca mutante furono pubblicati come racconti nel 1945.

Per frenare lo strapotere del Mule dovrà entrare in campo la Seconda Fondazione, fino a quel momento rimasta nell’ombra. A essa è dedicato il terzo libro della trilogia, dove si assiste a un deciso cambio nei toni e nelle atmosfere; la Seconda Fondazione, infatti, non è in grado di imporsi grazie alla superiorità scientifico-industriale come la Prima, ma si è concentrata sullo sviluppo della psicologia e delle arti del controllo mentale. Grazie al suo intervento il Mule viene fermato ma ciò suscita l’attenzione della Prima Fondazione, la cui consapevolezza dell’esistenza della gemella, sperduta chissà dove nella Galassia, diventa un problema per il Piano Seldon. Lo scontro fra le due Fondazioni, con la Prima desiderosa di liberarsi dell’onnipresente influenza della Seconda, è gestito da Asimov come una serrata partita a scacchi, immersa in un clima di paranoia e sospetto dove nessuno è più davvero sicuro non solo delle intenzioni di chi ha vicino, ma neanche delle proprie. La visione positivista della storia di Asimov rivela così le sue zone d’ombra, poiché il prezzo da pagare per la salvaguardia del Piano Seldon è la limitazione della libertà individuale.


La Trilogia della Fondazione è dunque un eccellente esempio di letteratura nella quale l’intrattenimento si sposa con affascinanti speculazioni sociologiche e tecnologiche. Asimov sa catturare il lettore con diversi espedienti narrativi, principalmente colpi di scena, caratteristici di molta letteratura di evasione, ma sa anche lasciar trasparire profonde riflessioni sul ruolo della scienza nella società senza mai diventare didascalico. Sebbene criticato per uno stile considerato letterariamente scarno, Asimov rientra in quella categoria di scrittori che, con asciutta semplicità, ha saputo creare storie dotate di più piani di lettura, in grado al tempo stesso di intrattenere e di far riflettere.

Questa recensione la trovate anche qui.

giovedì 21 febbraio 2013

Django Unchained (2013)


Avete presente quel vostro amico che si fa vedere poco ma quando c'è alza il livello della serata? Quello che dice tante parolacce ma che dietro alla sua apparente grossolaneria cela uno spessore mica da ridere? Bene, ora immaginate che una sera lui si faccia vivo ma sia un po' sottotono; tipo che racconta male una barzelletta o tira troppo per le lunghe certi suoi discorsi. In realtà non sapreste dire cosa vi ha lasciato interdetti, fatto sta che mentre tornate a casa vi ritrovate a pensare "bella serata, però..."
Ecco, questo è Django Unchained.
Poi oh, il giorno in cui Tarantino sbaglierà un film pioveranno rane, si spezzerà il settimo sigillo e si udranno le trombe dell'Apocalisse. Quindi andate a vedere Django e godetevi le sue trovate, le sue citazioni, le sue musiche e quando uscite fate pure un monumento a Samuel L. Jackson.

domenica 18 novembre 2012

Skyfall (2012)

Nel 2006, grazie a quella meraviglia di Casino Royale, abbiamo imparato ad accettare Craig come erede di Connery & co. Ecco, lasciando perdere l'inutile Quantum of Solace (che titolo però, signori), Skyfall compete ad armi pari con il primo capitolo della trilogia craigana. Vince nella scelta del villain - Javier Bardem che frocieggia con Danielone è imperdibile - nei meravigliosi titoli di testa e nella parte finale, così incredibilmente poco bondiana e così deliziosamente azzeccata. A sorpresa, scivola invece su qualche buchetto di sceneggiatura mentre sul versante figa non c'è storia, a meno che non siate amanti del granny: la bond-girl di punta infatti è Judy Dench. Oltre a lei, Naomie Harris s'impegna e l'altra francese non è da buttare ma madonna Eva Green rimane su un altro pianeta.

Ted (2012)


Allacciate le cinture, eccovi un film di Seth McFarlane, creatore dei Griffin. Starring, un orsacchiotto volgare, sballato e arrapato: Mr. Wiggles Ted! Irriverente, urticante, politicamente scorretto.
Che bello sarebbe stato, eh?
In realtà Ted è una commediola romantica prevedibilissima e noiosetta, graffiante quanto un marshmallow. L'orsetto che fuma il bong. L'orsetto che dice "cazzo". L'orsetto erotomane. L'orsetto che fa battute sugli ebrei. Divertente i primi dieci minuti, ma se il succo è tutto lì allora bastava guardarsi il trailer. E poi dai, certe gag coi peti. E sono pure alcune delle più divertenti! E non sto a lamentarmi del doppiaggio, giusto perchè la rece è finita ("you can suck my dick" diventa "fammi un bel pippon"... ma per piacere).